Spiderman: No way home

Le aspettative alterano la percezione delle cose, manipolano la realtà e alzano asticelle invisibili. Insomma, le aspettative hanno un grande potere. Per cui, per dirla in modo familiare, su questo “Spider-Man: No Way Home” pesavano grandissime responsabilità. Un film diventato proprio come Peter Parker alla fine del precedente capitolo: oppresso dal peso della fama, circondato da una folla di persone che di colpo gli ha messo gli occhi addosso e soprattutto messo alle strette per dimostrare il suo vero valore. Finalmente nella nostra agognata recensione di “Spider-Man: No Way Home” possiamo raccontarvi il film più atteso dell'anno. In qualsiasi multiverso. Senza teorie evanescenti, ipotesi strampalate e soprattutto senza spoiler. Vi parleremo del cuore di questo film strabordante senza più fumo davanti agli occhi. Perché di carne al fuoco, fidatevi, ce n'è tantissima. Forse troppa, direbbe qualcuno, ma il vero pregio di questo film è la leggerezza con cui gestisce la sua stessa ambizione. Una leggerezza quasi incosciente, come quella di alcuni adolescenti. Come quella di un Peter Parker ancora dentro la sua bolla ovattata, forse troppo protetto e tenuto al sicuro, e adesso costretto ad affrontare la vita. Quella più adulta, consapevole e dolorosa. Quella in cui anche Spider-Man deve imparare a camminare senza rete sotto i piedi.
Mani nei capelli e occhi sgranati. La maschera è caduta e non copre più il volto di Peter Parker. Adesso tutti sanno chi si nasconde dietro Spider-Man. Si inizia esattamente dove finiva “Spiderman: Far From Home”, con una rivelazione sconcertante e l'improvviso effetto domino sulla vita di un ragazzo di New York. Uno shock che sconvolge il microcosmo di Peter, tornato nel comfort dei propri affetti dopo le avventure galattiche assieme agli Avengers. Però il titolo del film vale come indizio: non si torna più a casa, la campana di vetro si scheggia subito, e lì sotto inizia a mancare l'aria. Si parte mettendo Spider-Man in difficoltà, visto che la diffamazione di Parker si riversa subito su MJ, Ned e zia May. Riecco lo storico dilemma di Peter Parker, costretto a gestire due vite inconciliabili: la sua e quella del paladino che si è cucito addosso. Eppure, anche quando immerso nelle difficoltà, questo Spider-Man non tocca mai la tenera malinconia dell'Uomo Ragno di Tobey Maguire o la rabbia cupa di quello di Andrew Garfield. Jon Watts non si dimentica il tono impostato della sua saga. Quella in cui ogni difficoltà e ogni imprevisto viene gestito sdrammatizzando, con il sorriso sulle labbra e la consapevolezza che in fondo le cose si sistemeranno. Ed è quello che desidera Peter all'inizio del film: far tornare le cose come prima. Per questo si rivolge a Doctor Strange chiedendo di aiutarlo a far dimenticare al mondo che Peter Parker è Spider-Man. Però questo è un viaggio di sola andata, è il grande addio alla spensieratezza. Per questo Spider-Man i ritorni non sono contemplati.
Dimensioni parallele, mondi lontani che si incrociano, il multiverso che si apre sulle nostre teste e prende vita anche con uno Spider-Man in carne e ossa. Dopo quella perla assoluta di “Spiderman: un nuovo universo”, che aveva gestito una dinamica complicata come quella degli universi multipli con grande eleganza, essere all'altezza non era facile. Il passo falso era dietro l'angolo. E infatti quando in “Spiderman: No Way Home” nemici di altri mondi iniziano a manifestarsi l'effetto è straniante per tutti. Per i personaggi straniti e per il pubblico. Perché il film non nasconde mai la sua natura, e gestisce anche il ritorno di Octopus, Green Goblin, Electro, Lizard e Sandman con quella disinvoltura divertita che a qualcuno potrebbe far storcere il naso. Non c'è rispetto reverenziale per le icone del passato, ma un tono da commedia adolescenziale (proprio come nei primi due film della saga). Così l'azione si permette persino dei momenti di comicità slapstick, qualche caduta di stile e scambi di battute persino puerili. Però “Spiderman: No Way Home” impone con gentilezza le sue regole e va così veloce che non ti dà mai il tempo di fermarti a pensare. È come una montagna russa (piena di alti e qualche basso) che ti prende, ti travolge e ti porta in giro per New York senza chiedere il permesso. Un ritmo incessante, fatto di accelerazioni continue e pochissimi momenti per rifiatare, che regala la bella sensazione di sfogliare un fumetto divorato pagina dopo pagina. A livello registico l'azione non tocca mai degli apici memorabili, ma nel complesso “Spiderman: No Way Home” ha grande consapevolezza dello spettacolo. Merito di una coralità gestita in modo bilanciato e di un intrattenimento che procede con equilibrio, alternando leggerezza e intensità, emozioni esaltanti e divertimento scanzonato. Senza dimenticare una marea di citazioni autoreferenziali e siparietti nerd che stamperanno qualche bel sorriso sui volti dei fan di Spider-Man. Risate, sorrisi, ma anche lacrime. Perché il film, per fortuna, trova anche il tempo per sondare l'animo ferito dell'Uomo Ragno di Tom Holland, finalmente in contatto con la sua parte fallibile. Le crepe del multiverso si specchiano in quelle aperte nel ragazzo costretto a crescere.
È così che si fa sulle montagne russe: a volte si chiudono gli occhi e ci si lascia trasportare anche se alcune cose possono fare paura. In questo senso “Spiderman: no way home” è un grande esperimento. Sia per Spider-Man che per il pubblico. Il film ci mette tutti con le spalle al muro e ci chiede: quando sei disposto a credere nel cambiamento? Da una parte Peter Parker ci mostra il suo lato più eroico quando decide di voler salvare chiunque, nemici o amici che siano. E lo fa proprio perché crede nel cambiamento, nelle seconde possibilità, nel dare una chance laddove altri non lo farebbero mai. Il suo Spider-Man guarda indietro per prendere la rincorsa e imparare dall'esperienza altrui. È un personaggio spugnoso che assorbe, impara da chi ha attorno, ha l'umiltà di non bastare mai a sé stesso, ma di affidarsi agli altri per trovare la sua forza. Dall'altra questa saga sembra chiedere a noi spettatori la forza di accettare il cambiamento di Spider-Man. Perché, sì, quello di Tom Holland è stato uno Uomo Ragno diverso dagli altri, viziato, protetto, coccolato. La sua saga finora ha vissuto di luce riflessa per meriti spesso non suoi, si è nutrito dell'amore per il Marvel Cinematic Universe, e soprattutto si è presentato al tavolo dei grandi senza fare gavetta. Questo Spider-Man ha avuto subito Tony Stark al suo fianco, ha avuto regali iper-tecnologici ed è sempre caduto in piedi anche quando ha visto la morte in faccia. Ora non è più così. No Way Home, drastico come il suo titolo, gli fa cadere il terreno sotto i piedi e inizia a togliere qualcosa a chi ha sempre avuto tutto. Un cambio di prospettiva fondamentale per apprezzare tutto il percorso della saga di Holland, che di colpo acquista un senso narrativo preciso e particolarmente prezioso quando fotografa una generazione abituata al "tutto e subito", che di colpo vede il proprio idolo costretto a fronteggiare i dolori della vita.
Imparare a stare in piedi da solo. Questo doveva fare lo Spider-Man di Holland, e in qualche modo anche “Spiderman: No Way Home”. Entrambi lo fanno benissimo, senza prendere troppe scorciatoie e abusare troppo del richiamo (o forse dovremmo dire ricatto) nostalgico. Grazie a un finale davvero esaltante, riesce nell'impresa di delineare la vera origin story del personaggio al suo terzo film. Il film finisce e per la prima volta senti una voce che ti sussurra: "Ora sì che Peter Parker è diventato Spider-Man". Paradossalmente quando il personaggio aveva tutto gli mancava qualcosa. Ora che qualcosa gli manca davvero, Spider-Man prende forma, spessore e consistenza, volteggiando tra i grattacieli di New York capendo davvero cos'è la vertigine.