Il cattivo poeta

Sergio Castellitto, testa rasata e giacca bianca, consegna al cinema il suo Gabriele D'Annunzio: un ritratto crepuscolare, l'ultimo anno di vita e di ribellione del Vate. Se gli si chiede cosa, di D'Annunzio, abbia scoperto l'attore girando “Il cattivo poeta” di Gianluca Jodice, e cosa scoprirà il pubblico, risponde: “Ho riscoperto innanzitutto un poeta. Incarnato non soltanto nelle sue opere, ma ancor di più nel corpo e nelle gesta che ha compiuto. D'Annunzio è stato poeta, amante, soldato... Ho scoperto uno straordinario innovatore, se pensiamo soltanto all'incredibile impresa di Fiume, alle sfide politiche e sociali che quella esperienza lanciò”. Nel film, prodotto da Matteo Rovere e Andrea Paris, incontriamo D'Annunzio nel 1936 attraverso gli occhi di un 29enne, il più giovane dei federali, Giovanni Comini, interpretato da Francesco Patanè. Il mentore del giovane, Achille Starace, segretario del Partito Fascista, lo incarica di sorvegliare il poeta e metterlo in condizioni di non nuocere. Perché D'Annunzio negli ultimi tempi pare contrariato e Mussolini teme che possa danneggiare la sua imminente alleanza con la Germania di Hitler. Ma il federale affiancando il poeta inizia a subire il fascino della sua grande personalità.
Jodice scrive nelle note di regia che si tratta di “un film sull'inverno della vita di un poeta e di una nazione intera, costruito come un thriller di spie ma basato rigorosamente su fatti storici accertati”. Il film è stato girato quasi tutto dentro il Vittoriale (con 200 comparse, e poi a Brescia, Nespi e Roma) dove D'Annunzio, che morirà il primo marzo del 1938 a 74 anni, sta trascorrendo l'ultima fase della vita, in una sorta di auto esilio. “L'età, la malattia e i vizi lo hanno portato a una depressione finale. E il rapporto della giovane spia mandata da Mussolini gli procura l'ultimo sussulto di vitalità e lo spinge a desiderare di contare ancora qualcosa”. Il regista gioca sul dualismo D'Annunzio-Mussolini, l'isolamento del Vittoriale e gli intrighi della politica e sul rapporto tra il Duce e il Vate, il condottiero indiscusso della nazione e il poeta sempre più vecchio e in disparte, protagonisti da vent'anni, spiega il regista, di una cordiale inimicizia: “Tra loro si susseguono, ora più che mai, infinite, sottili schermaglie perché D'Annunzio fascista non lo è stato mai. Come avrebbe potuto d'altronde il suo slancio libertario e anticonformista affiancare lo spirito piccolo borghese, violento e clericale del fascismo? Questo il Duce lo sa bene, come sa che l'altro ha un seguito ancora enorme, è intoccabile per il suo essere poeta internazionale, intellettuale europeo ed eroe di guerra. Qualunque parola di d'Annunzio, pronunciata o scritta, può ancora far tremare il regime”. Jodice ha cercato il rigore del bianco e nero in un film a colori, “fin da subito le immagini che mi si sono presentate davanti avevano i toni degli interni del Vittoriale, profondi gialli, neri, verdi”. Naturalmente, dice il regista, ha pensato a molti film. E il primo che viene in mente è “Il conformista” di Bernardo Bertolucci. “Ho cercato di non pensarci, troppo fatato, importante, inavvicinabile. Vicino solo nel voler raccontare il regime dall'interno”. Cosa mai semplice, tra l’altro.
Sarà interessante capire quali reazioni susciterà il film e in che modo si inserirà nel dibattito mediatico su certa nostalgia del fascismo e sull'antifascismo. Per Castellitto “non si torna a parlare oggi di fascismo e antifascismo, la verità è che non si è mai smesso di farlo. Qualsiasi sfida o conflitto politico in questo paese viene ricondotto quasi in automatismo a quella contrapposizione. Credo che le cose siano davvero più complesse. Il film racconta degli ultimi anni di D'Annunzio, nella sua ragionata e poco conosciuta dissidenza al regime. Ma in democrazia la censura trova altri modi per agire e la dissidenza è privata della sua epica sotto la coltre del conformismo. La dissidenza oggi non si compie attraverso l'antifascismo, come d'altronde aveva già profetizzato Pasolini molti anni fa”.
Quindi un film importante, che si inserisce nella grande tradizione del dramma storico che il nostro cinema ha sempre coltivato con attenzione.